IV

L’ESPERIENZA TEATRALE

Come l’Ariosto si trovò all’inizio del petrarchismo bembesco e vi condusse una sua esperienza lirica, anche importante in funzione di un motivo poetico presente nella complessa poesia dell’Orlando, cosí venne pure a trovarsi all’inizio della commedia italiana, e la sua esperienza teatrale riveste importanza in quanto avvio ad una pratica letteraria e in quanto esperienza di comicità, di movimento scenico utilizzata nel poema, collaborante con altre esperienze che precedettero e accompagnarono lo sviluppo del capolavoro.

E se nel giudizio di valore poco può contare la genesi tecnica della commedia italiana, nata sulla consumazione dell’esperienza di teatro religioso in cui nel Quattrocento affioravano esigenze realistiche atte a rompere lo schema agiografico e sul tentativo di riprodurre il teatro classico magari come semplice seguito di scene ornamentali, al di là della crociana svalutazione dei generi, non si può negare che al valore intrinseco delle commedie ariostesche si lega fortemente la loro importanza di novità nella storia letteraria di un secolo in cui certi schemi furono sentiti e sostenuti come vivi e tradizioni nacquero e si affermarono con presunzione di continuità e di nobiltà.

La stessa presenza di modelli classici, mescolata con influssi novellistici (specie boccacceschi), indica la ricerca del poeta di una ricchezza e di un appoggio in un’operazione che a lui sembrava nuova proprio nel distaccarsi da una semplice traduzione, nel sostenere un tentativo organico superiore alle semplici imitazioni in latino, ai volgarizzamenti pedissequi, alle favole sceniche prive di complessità teatrale.

Era il vero inizio della «imitazione originale», in cui il modello latino forniva elementi ritenuti essenziali come la buona lingua ciceroniana nella prosa umanistica piú matura, e l’autore li sviluppava a suo modo traendoli verso una produzione di interesse contemporaneo: teoria e pratica ben naturali nel generale canone della imitazione rinascimentale e notevoli storicamente come pedagogia ad un senso di costruzione drammatica mancante nella nuova letteratura. Sicché proprio questa volontà costruttiva e questa formula teatrale resero esemplari queste commedie agli occhi non solo degli italiani, ma dei francesi, che iniziarono piú tardi una nuova esperienza teatrale traducendo fra le commedie italiane specialmente quelle ariostesche: nel 1552 sono i Suppositi tradotti da Jean Pierre de Mesmes, nel 1568 il Negromante tradotto da Jean de la Taille che nel prologo dei Corrivaux attesta il prestigio dell’Ariosto commediografo: «Les Plautes, les Terences, les Ariostes, sont rares lesquels bien que fussent grands personnages n’ont dédaigné de faire tels jeux».

E del resto, al di là delle tesi della sterilizzazione operata nel teatro cinquecentesco dalla imitazione, dovrebbe essere ormai accettato il valore di esperienze (anche se a volte pedantesche), di cultura letteraria organica e compatta offerte dal teatro cinquecentesco e quindi dovrebbe venire accentuata l’importanza storica delle commedie ariostesche e l’importanza dell’Ariosto nella poetica del Cinquecento.

E questo anzitutto ci preme: sottolineare la passione di ars, di metodo che ritroviamo anche in questa esperienza ariostesca e d’altra parte ricondurre l’esame delle commedie, come abbiamo fatto per Liriche e Satire, nell’esame piú generale delle esperienze artistiche ariostesche.

A Ferrara la moda di teatro latino era fortissima alla fine del secolo XV e l’Ariosto fanciullo trovava nel teatro come nel romanzo cavalleresco una suggestione già pronta, evidente, adatta alla sua fantasia non di tensione drammatica, ma certo di movimento e di visione efficace. La stessa pratica di attore cortigiano e i suoi tentativi teatrali di fanciullo e di adolescente dovettero agevolare questo contatto fresco e impegnativo con il mondo letterario contemporaneo, avvicinato piú nel senso del mestiere artistico reso cosciente in esperienza, che come scolastica discussione teorica (il che non vuol dire affatto ingenuità!), e i numerosi spettacoli della sua adolescenza poterono costituire uno stimolo a precisi tentativi (come la puerile Tisbe, i rimaneggiamenti e volgarizzamenti delle commedie plautine Menaechmi e Aulularia, delle terenziane Andria, Eunuchus) e insieme ad un gusto dell’evidenza e della disposizione scenografica che rimase sempre fortissimo in lui: si pensi alla presentazione di Olimpia sul «sasso cavo» come su di un podio con lo sfondo del cielo limpido illuminato dalla luna[1].

Da questa offerta della cultura ferrarese l’amore per l’arte teatrale seguí tutta la vita poetica dell’Ariosto, dando luogo ad un’esperienza lunga e matura.

È nel 1508 che fu rappresentata la prima commedia dell’Ariosto, la Cassaria, composta nell’anno precedente e quindi calcolabile fra le primissime commedie erudite o «sostenute» che superavano la provvisorietà delle ecloghe drammatiche, delle favole mitologiche e che in sostanza costituirono in quel momento la vera rappresentazione concepita con propositi d’arte, non di puro divertimento, di gustoso «varietà». Lo spostamento della data dal 1498 (secondo l’ipotesi carducciana) al 1508, se può togliere alle prime opere teatrali dell’Ariosto un presunto sapore giovanile e il valore di una esperienza totalmente precedente all’Orlando, dà invece loro una maggiore dignità di fronte alle esili primizie latine, tale da presupporre una serie di tentativi che sono da collocarsi nell’età piú giovanile, da quando l’attività comica accompagnò ogni altra manifestazione poetica ariostesca arricchendo indubbiamente la complessità del poema con atteggiamenti di struttura teatrale, di tonalità comiche e grottesche che lí vengono sollevate in funzioni di linea musicale.

Per rendersi conto della poetica teatrale dell’Ariosto e del suo inserirsi in una piú larga poetica cinquecentesca, bisogna anzitutto notare l’atteggiamento che il poeta assume nei prologhi delle commedie, secondo l’uso classico di discutere nel prologo questioni generali di metodo.

Se leggiamo cosí il prologo della prima Cassaria in prosa, cioè il documento piú antico dell’attività comica del nostro[2], troviamo subito un’affermazione di «novità» in cui l’Ariosto sembra rivendicare una originalità e una indipendenza dal teatro classico che trova spiegazione nel relativo senso di audacia di una produzione che, mentre ha la sua dignità «sostenuta» nella vicinanza agli esemplari classici, non è pedissequa traduzione o ripresa puntuale di temi invariati: tanto piú che i pregiudizi rinascimentali circa il teatro pongono la commedia in un grado di arte meno impegnativa, piú basata sulle variazioni dell’avvenire che non sui valori schiettamente formali, che rimanevano come sopraggiunti piú che per ogni altro «genere». Tanto che nel prologo primo della Lena, cosí festoso e piacevole, l’Ariosto dichiara la commedia un componimento poco difficile e poco impegnativo:

Io, che so quel che dettomi

ha il mio maestro, che fra le poetiche

invenzïon, non è la piú difficile,

e che i poeti antiqui ne faceano

poche di nuove, ma le traducevano

dai Greci, e non ne fe’ alcuna Terenzio

che trovasse egli, e nessuna o pochissime

Plauto, di queste ch’oggidí si leggono,

non posso non maravigliarmi e ridere

di questi nostri, che quel che non fecero

gli antiqui loro, che molto piú seppono

di noi in questa e in ogni altra scïenzia,

essi ardiscan di far[3].

(vv. 13-25)

Sotto l’apparente contraddizione implicita nella constatazione della poca difficoltà della commedia e dell’audacia dei moderni e dello stesso Ariosto di voler fare commedie nuove quando “nuove” non ne facevano gli antichi, c’è nella forma di bonaria ironia la precisazione dell’originalità ariostesca consistente in variazioni di intreccio piú che in profonde innovazioni strutturali, valida in un cerchio limitato in sede di programma: «imitazione originale».

Ugualmente nel prologo in terzine della Cassaria in prosa il poeta si preoccupa di valorizzare e giustificare nei suoi limiti la «novità» delle sue commedie:

Nova comedia v’appresento piena

di vani giochi che né mai latine

né greche lingue recitarno in scena.

Parmi veder che la piú parte incline

a riprenderla, súbito c’ho detto

nova, senza ascoltarne mezzo o fine:

ché tale impresa non li par suggetto

de li moderni ingegni e solo estima

quel che li antiqui han detto esser perfetto[4].

(vv. 1-9)

Versi che ci indicano la coscienza chiara della reazione di un gusto ferrarese innamorato di classicità e convinto della bontà di una riproduzione di opere considerate perfette, e una certa timidezza scherzosa del poeta nello staccarsi verso quella «imitazione originale» in cui un classicista rigido poteva riprendere la provvisorietà della lingua volgare, l’approssimazione di uno sviluppo che voleva mantenere il modulo classico e insieme creare un’opera autonoma. E infatti l’Ariosto si preoccupa di riconoscere la superiorità delle lingue classiche e quindi una certa deficienza naturale delle commedie in volgare e insieme di chiarire la forza di vitalità poetica non spenta nei moderni:

È ver che né volgar prosa né rima

ha paragon con prose antique o versi,

né pari è l’eloquenzia a quella prima;

ma l’ingegni non son però diversi

da quel che fur, che ancor per quello Artista

fansi, per cui nel tempo indrieto fèrsi.

La vulgar lingua di latino mista

è barbara e mal culta, ma con giochi

si può far una fabula men trista[5].

(vv. 10-18)

Concessioni in gran parte sincere, in parte anche pro bono pacis (la «vulgar lingua» in cui iniziava il Furioso non doveva sembrargli cosí barbara, specie dopo le conversazioni con il Bembo), e insieme difese scherzose tipicamente ariostesche nel loro bonario senso umano, antischematico (l’uguaglianza degli ingegni fatti tutti dalla stessa potenza creatrice), che culminano nella definizione della «imitazione originale»: l’inferiorità naturale della commedia non latina è resa meno schiacciante dall’abilità di intreccio e di scherzi umoristici del poeta. Dal quale principio affermato dall’Ariosto deriva anche quell’eccesso di scurrilità, di scherzi piú o meno grossi di cui le commedie abbondano a cominciare spesso dagli stessi prologhi, come avviene in quello dei Suppositi o in quello della Lena caudata.

Donde anche deriva in parte, come intenzione di vivacità e di attrattiva, quel gusto di realismo cittadino tanto convenzionalmente lodato e perfino deriva in parte quel ritmo che il poeta ricerca anche come adeguazione del metro comico classico e di accelerazione briosa, come «gioco» di parole sdrucciole e mobili.

E a precisare l’atteggiamento dell’Ariosto rispetto all’«imitazione originale» serve anche il prologo dei Suppositi in prosa: «E vi confessa in questo l’Autore avere e Plauto e Terenzio seguitato, de li quali l’un fece Cherea per Doro, e l’altro Filocrate per Tindaro, e Tindaro per Filocrate, l’uno ne lo Eunuco, l’altro ne li Captivi, supponersi: perché non solo ne li costumi, ma ne li argumenti ancora de le fabule vuole essere de li antichi e celebrati poeti, a tutta sua possanza, imitatore; e come essi Menandro et Apollodoro e li altri Greci ne le lor latine comedie seguitoro, egli cosí ne le sue vulgari e modi e processi de’ latini scrittori schifar non vuole. Come io vi dico, da lo Eunuco di Terenzio e da li Captivi di Plauto ha parte de lo argumento de li suoi Suppositi transunto, ma sí modestamente però che Terenzio e Plauto medesimi, risapendolo, non l’arebbono a male, e di poetica imitazione, piú presto che di furto, li darebbono nome. Se per questo è da esser condennato o no, al discretissimo iudicio vostro se ne rimette»[6].

Esitazione in realtà fra il desiderio di essere nuovo, originale e quello di essere fedele imitatore dei classici: esitazione cui corrisponde nell’attuazione concreta un tono di impegno artistico esitante tra forma e avventura, tra decoro classico del «genere» comico e volontà di «giochi» originali, tra puro movimento e discorsività che meglio risulta in certe parlate, in certi prologhi tra sorridenti e nostalgici come quello ben riuscito della Cassaria in versi. È un tono che si avvicina spesso a quello delle Satire nel suo brio meno incisivo e mancante dello stimolo di un’accentuazione autobiografica (come “testimonianza” della concretezza dell’esperienza), che qui affiora solo nei prologhi con intenti di umorismo piú slavato e puntuale. Un tono in generale piuttosto dolciastro e sbiadito che si può ritrovare anche in certe parti dell’Orlando piú discorsive e meno investite dalla musica generale (specie negli ultimi canti): il che può indicare la sua presenza sia come esperienza letteraria riassunta in piú alta funzione, sia come appoggio e spiegazione di momenti inferiori che nella loro minore intensità hanno pure una loro base letteraria adeguata. Le opere minori seguitano cosí a vivere entro il poema, in certi toni o come esperienze sfruttate a piú alti scopi, e il loro studio aiuta la coscienza della varietà di gradazioni e di intensità che sono riannodabili non solo a discese di ispirazione, ma a volontà letteraria, a sapienza costruttiva, al riaffiorare, in momenti piú stanchi, di surrogati già pronti in toni altrove conquistati.

In questa maniera, attraverso una lettura delle singole commedie non slegata da una continua attenzione alla loro poetica, alla loro funzione nel lavoro artistico dell’Ariosto, si può darne un giudizio veramente «storico», superando quel faticoso tentativo di rivalutazione che pur reagisce giustamente all’eccessivo discredito disattento che tradizionalmente le colpisce in nome della imitazione[7]. Non sono tanto singoli e antologici valori che in esse possiamo trovare quanto la creazione (piú riuscita nelle ultime e specie nella Lena) di un tono medio in cui si traduce una esperienza di vita quotidiana e aneddotica. Tono che legato ai tentativi artistici ariosteschi e al capolavoro mostra come le commedie, pur nei limiti di valore che si debbono loro assegnare, non rimangono periferiche e la loro conoscenza, l’accertamento della loro vitalità nei suoi tipici modi agevola la stessa storicizzazione dell’Orlando che non nasce come miracolo, ma in un nesso vivo di esperienze e di tentativi letterari.

La Cassaria in prosa, composta nel 1507 e rappresentata nel 1508, vuol vivere tutta, secondo l’indicazione stessa del titolo, di un’avventura che ha per pretesto la cassa di filati d’oro che un figlio scapestrato, Erofilo, consigliato dal servo Volpino, fa lasciare in pegno da un falso mercante presso il ruffiano possessore delle due fanciulle amate da lui e dall’amico Caridoro: cassa che dovrebbe essere ritolta dal bassà di Sibari come se fosse rubata e che invece torna in possesso del vecchio padre di Erofilo con pericolo del crollo di tutta l’avventura. Questa poi, per merito d’un altro servo, si sviluppa favorevolmente con la fuga del ruffiano ed altri minori avvenimenti in cui la commedia senza vigore e un po’ confusamente si sperde.

È già la trama piú complicata che complessa, costruita un po’ a mosaico, che ci suggerisce l’impressione di una scarsa forza teatrale dell’Ariosto e delle difficoltà in cui egli si involge quando, come nelle due prime commedie, per supplire alla sua deficienza teatrale piú drammatica, accumula particolari, «giochi», battute oscene che non hanno né quel riso incontenibile e sereno dell’Orlando né la grazia pungente di certi dialoghi cinquecenteschi che raggiungono risultati artistici sul registro della piú chiara oscenità (come, ad esempio, la scena XI dell’atto III della Calandria, cosí sorridente, leggera, pausata).

Anche la cura dei personaggi, nell’equivoco di una caratterizzazione continua cui l’Ariosto non era chiamato, rimane indecisa fra caricatura, piatto verismo e la presenza dei modelli plautini e terenziani: ben altra cosa saranno i vari Brunello e le piú laterali vignette orlandesche mosse da un motivo di musica, immerse in un’onda poetica che qui manca, sí che i personaggi rimangono un po’ diafani e calcografici pur essendo individuati con una volontà di distinzione teatrale che nell’Orlando sarà superata dalla funzionalità di ogni figura rispetto al motivo poetico generale. Del resto nella Cassaria l’unica figura che raggiunga una certa forza di «persona» e crei intorno a sé una certa atmosfera è Lucrano ruffiano.

Da quando ci viene presentato nella scena VI del I atto in un lungo monologo sentenzioso e burbero sull’avarizia dei Sibariti, risalta la sua serietà di «professionista», convinto della trista realtà in cui diguazza e che a suo modo domina con una virilità ed iniziativa da bassofondo completata dall’accompagnamento assai gustoso e pregevole del linguaggio “furbesco” del suo servo, il Furba, che risolve in brevi ghiribizzi coerenti l’accolto senso di ambigua furberia che serpeggia nel discorso di Lucrano: come nell’esempio migliore dell’atto III, nella ribalda presentazione del cinico nella scena III e nel monologo della scena VII:

Trappola: Dimmi, om da bene.

Lucrano: Tu dimostri per certo di non esser molto pratico, che m’hai chiamato per un nome che né a me, né a mio padre né ad alcun del sangue mio fu mai piú detto.

Trappola: Perdonami che non t’avevo ben mirato; io mi emenderò. Dimmi, tristo om, d’origine pessima...; ma, per Dio, tu sei quel forse proprio ch’io cerco, o fratello o cugin suo o del suo parentado almeno.

Lucrano: Potrebbe essere: e chi cerchi tu?

Trappola: Un baro, un pergiuro, uno omicidiale.

Lucrano: Va’ piano, che sei per la via di trovarlo: come è il proprio nome?

Trappola: El nome... ha nome..., or or l’avevo in bocca, non so che me n’abbi fatto.

Lucrano: O ingiottito, o sputato l’hai.

Trappola: Sputato l’ho forse ingiottito no; che cibo di tanto fetore non potrei mandare nel stomaco senza vomitarlo poi súbito.

Lucrano: Coglilo adunque de la polvere.

Trappola: Ben tel saprò con tanti contrasegni dimostrare, che non serà bisogno che del proprio nome si cerchi: è bestemiatore e bugiardo.

Lucrano: Queste son de le appartenenzie al mio essercizio.

Trappola: Ladro, falsamonete, tagliaborse.

Lucrano: È forse tristo guadagno saper giocare de terza?

Trappola: È ruffiano.

Lucrano: La principal de l’arte mia.

Trappola: Reportatore, maldicente, seminatore di scandoli e di zizzanie.

Lucrano: Se noi fussimo in corte di Roma, si potria dubitare di chi tu cercassi: ma in Metellino non puoi cercare se non di me, sí che ’l mio proprio nome ti vo’ ricordare anco: mi chiamo Lucrano[8].

[...]

Lucrano: Né se potrà perciò questo mercatante da me chiamare ingannato, che, prima che lo ricevessi in casa mia, non gli abbia fatto intendere che ero baro, giuntatore, ladro e pien d’ogni vizio. Se pur s’è voluto poi di me fidare, se n’abbia il danno. Ma ecco il Furba a tempo: si parte il legno questa notte, o quando?

Furba: Non ghiselasti col furbido in berta?

Lucrano: Trucca de bella al mazzo de la lissa, e cantagli se vòl calarsi de brunoro, c’ho il fior in pugno e comperar vo’ il mazzo[9].

Sfuma invece la figura di Lucrano nelle ultime scene in cui l’improvvisa paura che lo prende lo stacca dannosamente dall’atmosfera spavalda e furba che gli si era costruita intorno e che aveva saputo (unico motivo fecondo della commedia) animare alcune figurine secondarie come Volpino e Fulcio. Tutto il resto è fiacco se si eccettua una breve illuminazione nella parlata del vecchio padre Crisobolo che pare quasi un preludio di certi vecchi padri goldoniani, vivi della poesia del lavoro, della sobrietà, e porta con sé toni seri e pacati che valgono per la calma stilistica da cui l’Ariosto commediografo era spesso distratto da un eccessivo gusto di intreccio e di scherzosità, che è anche una concessione troppo premurosa di poeta cortigiano al suo pubblico: oltre che una tendenza altrove sublimata in gusto di linea agevole e complessa.

Crisobolo: (al figlio Erofilo) Non credi tu che anch’io sia stato giovane? Io, in la tua etate, ero sempre a lato del tuo avo, e con sudore e fatica lo aiutavo ad ampliare el patrimonio e le facultà nostre, che tu prodigo e bestiale, con la tua lascivia, cerchi consumare e struggere. Sempre, ne la gioventú mia, era el maggior mio desiderio d’esser presso alli omini boni stimato bono; e con quelli conversavo e questi, con tutto el studio mio, cercavo imitare. E tu, pel contrario, hai sol pratica di ruffiani e bari e bevitori e simile canaglia; che se mio figliolo vero fusse, aresti rossore d’esser veduto loro in compagnia[10].

Una prosa in tono minore fra ragionativo e cantilenato che di solito si appesantisce in coerenza con una costruzione teatrale in cui non risaltano momenti di particolare intensità, e vige un fitto susseguirsi di vicende che sembra arieggiare un’apprensione piú aneddotica di una molteplice realtà nel suo aspetto di cronaca piú pettegola. Donde il generale aspetto di questa commedia in cui qualche raro germe di vita espressiva è soffocato da un atteggiamento intimamente prosastico e senza luce.

Soffocamento di alcuni germi vivi che è piú evidente nei Suppositi (composti nel 1508 e rappresentati nel 1509), in cui la complicatezza teatrale si fa confusione e travolge ogni possibilità di costruzione poetica. Né basterebbero a sostenere l’opinione entusiastica degli antichi biografi e dei lettori fino al Settecento le troppo decantate innovazioni d’ambiente (la scena è a Ferrara) e le figurine realistiche alla Caprino, «un monello pieno di impertinenza e di spirito che l’autore ha saputo cogliere per le vie di Ferrara e ritrarre con somma naturalezza», secondo il tipico giudizio carducciano[11]. Mentre d’altra parte valgono come riprova di confusione drammatica su di un piano di intreccio comico quegli appunti del Ruth, ripresi dal Carducci circa la mancanza di coerenza dei personaggi principali: appunti che potevano servire alla critica del secondo Ottocento per indicare una predisposizione alla confusione nell’Orlando e che viceversa servono a noi proprio per mostrare come la vera vocazione dell’Ariosto, in contrasto con la sua volontà temporanea di commediografo caratterizzatore – cosí accentuata in queste prime commedie –, fosse del tutto fantastica e musicale: e mentre nel poema la mancanza di coerenza psicologica nei personaggi riesce praticamente ai meravigliosi risultati di una poesia lirica, non drammatica, sul piano comico teatrale provoca confusione, incertezza, labilità di impressioni e di motivi. Sarà nel Negromante e piú nella Lena che la ricerca piú coerente di tono valorizzerà altrimenti la stessa vita dei personaggi.

Se si può staccare la scena II del I atto dove la figura del parassita Pasifilo riesce ad una vita parziale nella adulazione ironica dello sciocco e pedantesco avvocato Cleandro, se si possono indicare antologicamente nel tono pacato e lento di immagini e parole senili le parlate del vecchio Filogono, soprattutto la scena V dell’atto IV caratterizzata dal procedimento piacevolissimo di scale contrarie di domande che dopo essere scese e risalite brevi e attente sfociano in uno scoppio di ira senile[12], il complesso della commedia è piú fiacco della Cassaria e mostra piú chiari i difetti di esteriore comicità comune alle commedie ariostesche, all’importanza attribuita nella loro poetica ai «giochi» e «scherzi».

Il successo ottenuto dai Suppositi spinse tuttavia l’Ariosto a riprenderli per primi nel 1528 allo scopo di metterli in versi e rinnovarli secondo un’idea della commedia come bisognosa di uno sviluppo piú fluido, meno scarno, cui diveniva essenziale il passaggio da una prosa piuttosto rude ad una continuità ritmica. Esigenza provata già nel 1509 con l’inizio della stesura interrotta del Negromante. La prosa rimase ben presto per l’Ariosto strumento pratico, epistolare, mezzo espressivo insufficiente per la sua fantasia tesa a trasportare la massima concretezza in condizioni non moralistiche o ragionevoli come avviene per tanta prosa cinquecentesca.

Ché anche nello scherzo l’Erbolato (uscito postumo nel ’45) la vivacità caricaturale del cerretano che esalta la medicina non supera i limiti di un brio infrenato da una prosa cosí poco luminosa, in cui l’eco di una tecnica boccaccesca si mescola con una concisione piú parlata in un risultato solo sommariamente efficace. Il contrasto fra il dire solenne, professorale e la conclusione ciarlatanesca non è tale da reggere ogni linea di questa prosa, ma costruisce una scena piacevole, una figura riuscita secondo quel gusto di disegno che trasformandosi poi in ghiribizzo musicale è alla base di tante figurine furfantesche dell’Orlando. Ma l’efficacia è come provvisoria e poco fermata in precisione stilistica.

Dopo la prova poco felice delle due commedie in prosa la tendenza piú genuina alla musica lo portava cosí all’impiego dell’endecasillabo sdrucciolo come ad una misura che poteva sembrare quasi un raccorciamento dell’ottava con la sua caduta finale e lo sviluppo di accenti che trattengono il verso in un suono ambiguo di recitativo. Già il Pigna aveva osservato la convenienza dello sdrucciolo «per l’humiltà sua, di che egli fa acquisto nel pigliare una sillaba di piú, che giusto cadere il fa, e che il fa con un suon languido correre»[13], e certo, oltre la lontana somiglianza col trimetro giambico, lo sdrucciolo doveva realizzare per l’Ariosto l’esigenza di una facilità parlata che la sua prosa raggiungeva con fatica e l’esigenza di una misura poetica, di una valorizzazione ritmica al suo «orecchio» indispensabile. Ed è chiaro che lo sdrucciolo diventa come soluzione ideale per una commedia col suo misto di decoro e di bizzarria claudicante che ben corrisponde al senso piú riposto del mondo comico ariostesco, esitante nella ricerca di tono medio e di efficacia scherzosa limitata e puntuale, ben lontana dal giro melodioso dell’Orlando. Tentativo anche questo di superare la prosa su quel terreno medio fra lirico e pratico in cui si risolve per lo piú l’Ariosto minore, giungendo volta a volta a soluzioni efficaci come la Lena o scadenti come i Suppositi.

L’uso del verso comico fu adottato nel Negromante e nel rifacimento (fra il ’28 e il ’31) delle due prime commedie, nelle quali l’influenza dello sdrucciolo si rivela evidentemente in una diluizione che è insieme ricerca di maggiore articolazione di parlate e di situazioni svolte con maggiore lentezza di particolari: quasi un rallentamento piú gustato rispetto alla prosa primitiva. E in genere una maggiore intelligenza artistica nel completare un carattere, nello svolgerlo almeno in parlate, come avviene nella seconda Cassaria per Lucrano per il quale viene aggiunta una parlata (atto II, scena I[14]) canagliesca alle sue femmine che serve bene ad allungare l’effetto della psicologia bassa e vilmente spavalda del ruffiano, e piú ancora, nella tendenza tipicamente ariostesca, a movimentarla immaginosamente anche al di là di una semplice caratterizzazione. Ma soprattutto è una prova di fede nel verso, nel ritmo che riprendendo a volte la prosa quasi con le stesse parole è ritenuto capace automaticamente di trasformazione. Come, ad esempio, nel dialogo Caridoro-Eulalia: in prosa «Queste son le serene e luminose stelle, che al lor bello apparire acchetar ponno le tempeste de’ nostri travagliati pensieri»[15], in versi:

Queste sono, Erofilo,

queste son le serene e salutifere

stelle che ’l tempestoso e oscuro pelago

de’ pensier nostri all’apparire achetano[16]!

(vv. 349-352)

Dove una maggiore scioltezza e complessità di ritmo sollevano il concettino comico facendone, piú che una punta isolata, un particolare di una linea piú ampia e continua: almeno come intenzione. Perché con questi rifacimenti delle due prime commedie non siamo molto piú in là delle intenzioni. Mentre una maggiore compattezza ed una vita artistica mediocre, ma piú coerente si può ritrovare, sulla via della commedia in versi, nel Negromante.

Per quanto la favola sia al solito semplice nuclearmente e complicata perifericamente, ricca di particolari aggrovigliati piú che di situazioni necessarie (un giovane sposato segretamente e costretto a sposare ufficialmente un’altra ragazza con la quale si finge impotente per ottenere con l’intervento di un negromante la rescissione del secondo matrimonio), in questa commedia, oltre l’inizio cosí vivo e familiare nella sua spregiudicatezza donnesca, oltre cioè parti singolarmente piú riuscite, esiste un centro di movimento e di ritmo comico nel protagonista che dà il titolo, il negromante Iachelino che, circondato dall’alone delle sue mistificazioni, della sua fama dottorale, lacerata dal lampeggiare della sua avidità e del suo cinismo furfantesco, riesce a muovere le altre figure attirate dal loro bisogno di quiete ed eccitate dal suo agire mendace.

Già il De Sanctis si era soffermato sulla figura del negromante per quanto notasse la sua scarsa vita drammatica. «Che uomo sia maestro Iachelino, è benissimo esposto in un dialogo di Nibbio; ma, quando lo si vede in azione, lo si trova noioso, insipido, grossolano, molto al di sotto dell’aspettazione»[17]: ma si noti che il De Sanctis cercava qui una netta impostazione comica e voleva ricostruire quale avrebbe dovuto essere la situazione comica di Iachelino e il suo sviluppo con quello schematismo che non manca nelle ricostruzioni desanctisiane pur nel loro genuino amore del concreto. Il difetto evidente è lo svanire della figura che si perde (del resto secondo una incuria ariostesca diversamente giustificabile nell’Orlando che conferma la natura molto particolare della sua esperienza teatrale) verso l’ultimo in battute incolori, mentre l’affermarsi del personaggio ha una forza non inficiabile con argomenti di puro riferimento drammatico: «Se maestro Iachelino [...] fosse un vero astrologo, che mentre vuol farla a’ padroni è burlato da’ servitori, il concetto sarebbe cosí spiritoso»[18]. Semmai è dannosa l’esagerazione caricaturale che troppe volte si fa monotona, mentre vivissime restano su di un preciso gusto di fermento vitale e di movimento certe figurine orlandesche su cui il ritmo passa, le avviva, se ne avviva, le supera. Ma anche nei limiti accennati, nel Negromante prevale (come meglio avverrà nella Lena) una traduzione della intenzione teatrale in volontà di tono comico-discorsivo che rende fruttuosi, diversamente dalla valutazione piú solita, i particolari contemporanei nel senso di una maggiore fluidità briosa non tutta eccitata dal gusto del ritmo di sdruccioli, ma piú riposata e rilevata da quella funzione delle “cose” che è al centro della poetica delle Satire:

Questa è la prima strada che, volgendosi

a man manca, passato Santo Stefano,

si truova [...][19].

(vv. 154-156)

Sí che non solo nel disegno generale si avverte un’organicità migliore, una prontezza e speditezza di battute che supera quella delle prime commedie e si inserisce in un gusto dell’avventura piú libero dagli impacci dell’imitazione pedissequa (anche se non manca l’espediente della agnizione), in un movimento di figure ben caricate nel loro giuoco come l’astrologo, Nibbio, Temolo, ma proprio nel rapporto di questa esperienza con la generale impostazione ariostesca si sente la vicinanza con le Satire – in modo piú diffuso e dispersivo – e si può comprendere il valore di questo tono comico-discorsivo, entro la sua condizione teatrale, nella natura di espressione letteraria vista dal problema ariostesco di adeguare con toni medi un primo grado di esperienza vitale fuori di ogni schematismo ideologico, e prima di una potente trasformazione fantastica. Quella realtà piú comune e domestica («bisognerieno pentole e vasella [...]») che vive letterariamente cosí efficace nelle Satire, che qui compare in una dimensione naturalmente diversa, piú rappresentata e piú scialba, piú scenografica e aneddotica, inducendo quell’aria di motivi elementari che anche qui appaiono capaci di costituire la solida piattaforma su cui si eleva il castello incantato dell’Orlando. Si legga il dialoghetto di Madonna e Fantesca e si ascolti questa voce non potente, ma salda in cui la cura di una tecnica teatrale si incontra con la preoccupazione di un linguaggio che adegui bonario e ridente un senso di vita spregiudicata e non libresca:

Madonna:

Confortati, figliuola, che rimedio,

fuor ch’al morire, ad ogni cosa truovano

le savie donne. Or resta in pace. – Ah misera

umana vita! a quanti strani e insoliti

casi è suggetto questo nostro vivere!

Fantesca:

In fé di Dio, che tôr non si dovrebbono

se non a pruova li mariti.

Madonna:

Ah bestia!

Fantesca:

Che bestia? Io dico il ver. Mai non si compera

cosa, che prima ben non si consideri

dentro e di fuor piú volte. Se in un semplice

fuso il vostro danaio avete a spendere, dieci

volte a guardarlo bene e volgere per man

tornate: et a barlume gli uomini si torran

poi, che tanto ci bisognano?

Madonna:

Credo che sii ubriaca.

Fantesca:

Anzi, piú sobria

unqua non fui. Io conobbi una savia,

già mia vicina, che si tenne un giovene

ogni notte nel letto piú di sedici

mesi, e ne fece ogni pruova possibile;

e poi che a tal mestier ben le parve utile,

de la figliuola sua, ch’ella aveva unica,

lo fe’ marito.

Madonna:

Va’ scrofa, e vergognati.

Fantesca:

Dunque mi debbio vergognare a dirve la

verità? S’anco voi la esperïenzia

fatta aveste di Cintio, a questo termine

non sareste. Ma che piú? Persuadetevi

che sia tutto uno, poi che esperïenzia

n’ha fatto Emilia tanti dí. Lasciatelo

in sua mala ventura, e d’altro genero

provedetevi. Ma prima provatelo:

fate a mio senno.

Madonna:

Uh, che consiglio, domine,

mi dà costei!

Fantesca:

Se non volete prendere

questo, ve ne do un altro: a me lasciatelo

provar; s’io il provo, saprò far giudicio

se se n’avrà da contentare Emilia.

Madonna:

O brutta, disonesta e trista femina,

serra la bocca in tua malora, e seguimi[20].

(vv. 841-877)

E questa vitalità, che aumenta e si diffonde piú uniformemente nella Lena, non agisce in senso di immediatezza sciatta, ed anima una maggiore intenzione espressiva, una volontà di effetti comici preparati da attenti procedimenti di linguaggio: la posizione strategica di un aggettivo che colora tutta una scena (il «tacito» della scena IV, atto III), l’uso abbondante del superlativo a scopi di musica comica:

(Astrologo:

Dove va questo inamorato giovene,

sopra tutti gli amanti felicissimo?

Camillo:

Io vengo a ritrovare il potentissimo

di tutti i maghi [...]

Astrologo:

[...] in tutto quel ch’io son buono, servitevi

di me, che sempre m’avrete prontissimo.

Camillo:

Ben ne son certo, e ve n’ho eterna grazia.

Ma ditemi, che fa la mia carissima

e dolcissima mia?[21]

(vv. 701-704; 711-715)

la ricerca costante, accentuata con intenzioni di ritmo claudicante e piacevole che acceleri il ritmo in coerenza con bizzarre immagini di una realtà buffonesca e truffaldina:

Nibbio:

Per certo, questa è pur gran confidenzia,

che mastro Iachelino ha in sé medesimo,

che mal sapendo leggere e mal scrivere,

faccia professïone di filosofo,

d’alchimista, di medico, di astrologo,

di mago, e di scongiurator di spiriti;

e sa di queste e de l’altre scïenzie

che sa l’asino e ’l bue di sonar gli organi [...][22].

(vv. 526-533)

Quanto agli Studenti, composti nel 1518-19, abbandonati alla scena IV del IV atto e completati da Virginio con il nome di L’imperfetta e da Gabriele con quello di Scolastica, non ci sembra che allo stadio attuale della sua elaborazione questa commedia possa dirci qualcosa di piú del Negromante o della Lena. Ed anzi a parte l’accenno alla descrizione dell’ambiente studentesco che non va molto al di là del titolo, essa non ha alcuna originalità e, se possiede un senso teatrale piú vigile, ricade come vitalità artistica al grado delle due prime.

Anche la Lena, rappresentata per la prima volta nel 1528 e ripetuta nel ’29 con l’aggiunta di due scene (la cosiddetta Lena caudata), ha una vitalità di tono lieto e domestico accentuato dal colore organico e familiare della scena ferrarese, che, al di là di ogni schematica volontà di realismo, dà a questo spettacolo un’aria cosí cordiale e, se si vuole, cronisticamente contemporanea. Naturalmente non una vita intensa e coerenti possibilità di dramma profondo, ma certo, nell’ambito già segnato alle commedie ariostesche, la Lena corre piú filata, evidente anche se aneddotica richiamando, piú blanda e slavata, nell’effervescenza degli sdruccioli, il tono delle Satire. Minore preoccupazione di complicatezza d’intreccio e maggiore ricerca di linguaggio comico. Cosí se giustamente Silvio D’Amico[23] limita il valore della Lena («la migliore delle sue commedie») a «un eccellente campione di pochade cinquecentesca viva, spiritosa, divertente», questo giudizio non tiene conto sufficiente di un risultato diverso e non teatrale: la riuscita fusione di linguaggio scorrevole e prosastico in letizia di ritmo, il tono scherzoso, proporzionato. Non dunque tanto gusto di macchiette, di quadretti pittoreschi, quanto una musichetta rapida ed evidente, una linea agevole e senza sbavature: un risultato di tono medio, ripeto, che si avvicina con minore forza a quello delle Satire.

Già la prima scena fra Corbolo e Flavio con la parodia del linguaggio amoroso mostra l’intenzione piú chiara di trasporre il senso vivace di un ritmo di vita aneddotica, di esperienza larga e comune non tanto nella comicità di azioni quanto di linguaggio in graduazioni di piacevole outrance e di letteraria ironia:

Io vo qui dove il mio Signor gratissimo,

Amor, mi mena a pascere i famelici

occhi d’una bellezza incomparabile[24].

(vv. 50-52)

E piú si avviva il linguaggio della commedia quando investe figure non convenzionali e schematiche come Flavio, ma sanguigne e cosí delineate non per effetto di realismo quanto di disegno piú carnoso e concreto; figure come quella della Lena tutta pratica e risoluta, machiavellicamente risoluta nei suoi piani, come quella di Pacifico, tradito e magnaccia, spregiudicato e capace di atteggiamenti moralistici, come quella del vecchio Fazio attaccato alla facile amante e pure mosso contro di lei da una specie di odio rabbioso di avaro costretto dalla libidine a dolorosi sacrifizi finanziari. E il dialogo sa prendere un’aria pacata, ma meno sbadata delle prime commedie, quando si basa coerentemente su note di piacevole quotidiano, su inflessioni di vita comune cui collabora il colore ferrarese senza esorbitare in equivoco realismo. Cosí la scena IX del IV atto col suo interno casalingo:

Menica:

Lena, che vuoi?

Lena:

Piacciati, cara Menica,

di farmi un gran servigio, da dovertene

esser sempre tenuta.

Menica:

Che vuoi?

Lena:

Vuo’ mi tu

farlo?

Menica:

Io ’l farò, pur che far sia possibile.

Lena:

Va’, madre mia, se m’ami, fin a gli Angeli.

Menica:

Ora?

Lena:

Ora sí.

Menica:

Lasciami prima mettere

la cena al fuoco.

Lena:

Non, va’ pur, che mettere

io saprò senza te al fuoco una pentola.

Va’: come sei dritto la chiesa, piegati

tra l’orto de li Mosti e ’l monasterio;

e va’ su al dritto, fin che giungi, al volgerti

a man sinistra, alla contrada dicono

Mirasol, credo. Or va’.

Menica:

Che vi vuoi, domine

ch’io vada a far?

Lena:

Vedi cervello! Informati

quivi (credo sia il terzo uscio) dove abita

la moglie di Pasquin, ch’insegna a leggere

alle fanciulle: Dorotea si nomina.

Va’ quivi, e digli: – A te, Dorotea, mandami

la Lena a tôr li ferri suoi da volgere

la seta sopra li rocchetti –; e pregala

che me li mandi, perché mi bisognano.

Or va’, Menica cara: donar voglioti

poi tanta tela, che facci una cuffia.

Menica:

La carne è nel catin lavata e in ordine,

non resta se non porla ne la pentola[25].

(vv. 1149-1173)

Tono medio e domestico in cui le stesse oscenità, abbondanti, passano ben piú giustificate e rapide che nelle prime commedie e movimenti di evidenza scenografica come quello con cui s’apre l’atto V, o battute di brio inaspettato come quella con cui s’inizia la scena II del III atto, si mescolano con lunghe sequenze di trovate umoristiche come la scena VI del III atto, sempre sulla base di un’adesione bonaria e festosa al ritmo piú spregiudicato della comune realtà, e vivono come elementi di tono largo e, solo in questo senso, «realistico». Ed è perciò che, se la vivacità della Lena appare spesso una vivacità di scherzo poco impegnativo, la vita che si accende senza bagliori drammatici intorno a Lena, Pacifico, Fazio con il loro legame di corruzione non giudicato moralisticamente dall’Ariosto, ma presentato nella sua ricchezza di direzioni poetiche, acquista una speciale evidenza artistica superando il valore di un semplice risultato d’intreccio pittoresco e collocandosi fra le parti vive della commedia cinquecentesca.

Non che si vogliano tentare accentuazioni drammatiche o fare intravvedere nell’Ariosto ricerche di realismo brutale, perché anzi tutto è alleggerito in tono bonario e non estremo, in amore di conclusione e distensione, e proprio in questo incontro di sostanziale familiarità antidrammatica le linee piú energiche (la determinazione lucida della donna energica e risentita contro il marito che l’ha spinta alla corruzione, il cinismo del magnaccia che ha pure lo scrupolo d’un divertente moralismo, la passione morbosa e lercia del vecchio), senza perdere il loro sapore di concreto attacco vitale, sfuggono ad ogni qualifica di sdegno moralistico o di cinismo[26].

Sul registro della comicità le punte di un linguaggio spregiudicato, concreto, e pur letterariamente coscientissimo e giustificato, realizzano uno di quei toni minori coerenti anche fuori del cerchio lirico dell’Orlando in cui certa discorsività di queste opere minori diventa agevolezza tutta musicale.

Pacifico:

Or vedi, Lena, a quel che le tristizie

e le puttanerie tue ti conducono!

Lena:

Chi m’ha fatto puttana?

Pacifico:

Cosí chiedere

potresti a quei che tuttodí s’impiccano

chi li fa ladri. Imputane la

propria tua volontà.

Lena:

Anzi la tua insaziabile

golaccia, che ridotti ci ha in miseria;

che, se non fossi stata io che, per pascerti,

mi son di cento gaglioffi fatta asina,

saresti morto di fame. Or pel merito

del bene ch’io t’ho fatto, mi rimproveri,

poltron, ch’io sia puttana?

Pacifico:

Ti rimprovero,

che lo dovresti far con piú modestia.

Lena:

Ah, beccaccio, tu parli di modestia?

S’io avessi a tutti quelli che propostomi

ogn’ora hai tu voluto dar ricapito,

io non so meretrice in mezzo il Gambaro,

che fusse a questo dí di me piú publica.

Né questo uscio dinanzi per riceverli

tutti bastar pareati, e consigliavimi

che quel di dietro anco ponessi in opera.

Pacifico:

Per viver teco in pace proponevoti

quel ch’io sapevo che t’era grandissimamente

in piacere, e che vietar volendoti,

saria stato il durar teco impossibile[27].

(vv. 1639-1663)

Questa, che non è semplice decorazione di prosa e che non è la poesia in cui simili pretesti narrativi si trasformano nel poema, è un chiaro esempio del limite e del risultato dell’Ariosto delle commedie, della sua esperienza teatrale. Come è inutile cercare una totale rivalutazione delle commedie al di là dell’ambito di tono medio segnatovi chiaramente dall’Ariosto, cosí non si può ridurle a semplice divertimento laterale e slegato completamente dalla sua carriera poetica. Alla quale invece, come le Liriche e le Satire, le commedie in grado diverso portano il loro contributo di esperienza artistica trasportando su di un preciso piano di espressione, e proprio nei modi che la civiltà letteraria gli offriva, le sue esperienze della vita piú quotidiana. E l’accertamento di questi toni medi arricchisce e rafforza la nostra impressione dell’Orlando nella sua opera superiore di trasvalutazione lirica del ritmo vitale colto dall’Ariosto nella sua multiforme realtà, nel suo piú immediato calore adeguato su piani artistici meno alti, ma coerenti e coscienti, nelle opere minori.


1 Orlando Furioso, X, 22-23.

2 La Cassaria in prosa fu composta nel 1507, nel 1508 i Suppositi in prosa, nel 1509-10 il Negromante ultimato nel 1520, gli Studenti iniziati nel 1518 e lasciati incompiuti, fra il ’28 e il ’31 i rifacimenti in versi della Cassaria e dei Suppositi, il secondo Negromante e la Lena.

3 L. Ariosto, Commedie, a cura di A. Casella, G. Ronchi, E. Varasi, in Tutte le opere di Ludovico Ariosto, a cura di C. Segre, Milano, Mondadori, 1974, vol. IV, p. 546.

4 Commedie, ed. cit., p. 3.

5 Ibid.

6 Commedie, ed. cit., pp. 197-198.

7 Si tratta soprattutto di N. Sapegno, che nella sua Storia della letteratura italiana (Firenze, La Nuova Italia, 1941, vol. II, p. 49) tende a giustificare le commedie almeno nella loro ispirazione «moralistica riflessiva e satirica», e del lavoro di C. Grabher, Il teatro dell’Ariosto, Roma, Edizioni italiane, 1946.

8 Commedie, ed. cit., pp. 24-25.

9 Commedie, ed. cit., p. 32.

10 Commedie, ed. cit., p. 57.

11 G. Carducci, Ludovico Ariosto e le sue prime due commedie, in Opere, ed. naz. cit., vol. XIV, p. 47.

12 Commedie, ed. cit., pp. 236-237:

Sanese: Mi dimandi tu, gentiluomo?

Filogono: Vorrei intendere donde tu sia.

Sanese: Siciliano sono, al piacer tuo.

Filogono: Di che terra?

Sanese: Di Catania.

Filogono: Come è el tuo nome?

Sanese: Filogono.

Filogono: Che essercizio è il tuo?

Sanese: Mercatante.

Filogono: Che mercanzia hai tu menata qui?

Sanese: Nessuna: ci sono venuto per vedere un mio figliolo che studia

in questa terra, e sono piú di dua anni che io non lo vidi.

Filogono: Chi è tuo figliuolo?

Sanese: Erostrato.

Filogono: Erostrato è tuo figliuolo?

Sanese: Sí, è!

Filogono: E tu sei Filogono?

Sanese: Sí, sono.

Filogono: E mercatante in Catania?

Sanese: Che bisogna domandare? Non ti direi bugia.

Filogono: Anzi tu dici la bugia, e sei un baro et uno cattivissimo uomo.

13 G.B. Pigna, I romanzi cit., p. 63.

14 Commedie, ed. cit., p. 92.

15 Commedie, ed. cit., p. 10.

16 Commedie, ed. cit., p. 79.

17 F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di B. Croce, Bari, Laterza, 1912, vol. II, p. 9.

18 Ivi, p. 7.

19 Commedie, ed. cit., p. 456.

20 Commedie, ed. cit., pp. 485-486.

21 Commedie, ed. cit., p. 479.

22 Commedie, ed. cit., p. 473.

23 S. D’Amico, Storia del teatro drammatico, Milano, Rizzoli, 1939, vol. II, p. 56.

24 Commedie, ed. cit., p. 548.

25 Commedie, ed. cit., pp. 601-603.

26 Che è poi il dilemma poco storico che molta critica pone al Machiavelli della Mandragola.

27 Commedie, ed. cit., pp. 623-624.